CLASSIFICAZIONI INTERNAZIONALI: ICIDH, ICIDH-2, ICF
Negli ultimi decenni la tendenza a considerare il problema dei disabili in una prospettiva basata sui diritti umani è maturata e si è ampiamente affermata a livello internazionale.
Solo di recente, infatti, gli Stati più avanzati hanno posto la loro attenzione verso i diritti delle persone con disabilità ed attuato nei confronti di queste misure di politica sociale.
Agli inizi del ‘900 due sono le visioni della disabilità che hanno determinato altrettanti precisi approcci, ancora riconoscibili nella legislazione di molti Paesi:
1. la disabilità come conseguenza di un danno, di cui nessuno ha colpa, che causa reazione individuale di pietà, a cui la società risponde con un intervento di tipo riparatorio-assistenziale (approccio caritativo-assistenziale). La persona con disabilità, definita per lo più “invalido”, viene presa in carico dalla società, che risponde con soluzioni di tipo istituzionale e/o monetario, ma non si vede riconosciuti dei veri e propri diritti;
2. la disabilità come conseguenza di un danno alla salute della persona: il disabile, definito in questo caso “malato”, deve affidarsi completamente al medico che centrerà la sua attenzione in particolare alla sua patologia; la società risponde destinando risorse soprattutto allo sviluppo della medicina riabilitativa e al mantenimento di strutture e personale specifico (approccio medico).
A partire dagli anni ’60 si sviluppa un terzo approccio in base al quale:
3. la disabilità è una condizione umana che procura un forte rischio di discriminazione sociale per la persona; la società è l’agente responsabile dell’eliminazione di ogni barriera che non
permetta il godimento dei diritti da parte dei cittadini con disabilità (approccio sociale alla disabilità), e risponde con l’eliminazione delle discriminazioni basate sulle disabilità e con azioni di “discriminazione positiva” (diritto alla uguaglianza e alla diversità).
Mentre nei primi due approcci i protagonisti sono gli operatori assistenziali e quelli sanitari, nel terzo sono le stesse persone con disabilità e le loro organizzazioni (DPO).
La lotta per assumere il controllo della propria esistenza da parte dei disabili, si riflette nel dibattito sull’uso di una terminologia corretta (non più invalidi, minorati, handicappati) che rispecchi un mutamento concettuale e culturale e non sia solo un linguaggio politically correct.
La moderna Pedagogia speciale non può utilizzare un repertorio terminologico obsoleto, spesso privo di coerenza, pur tenendone conto come riferimento storico, deve fare i conti con l’evoluzione
lessicale e semantica della terminologia che definisce la diversità e che rispecchia l’evolversi anche culturale, oltre che concettuale e scientifico, del modo di porsi nei confronti di tale problematica già ampia e complessa di per sé.
Tale puntualizzazione non deve essere presa come una leziosità fine a se stessa, nasce dalla necessità di fare riferimento ad una terminologia chiara e condivisa, necessario presupposto di ogni
dialogo e confronto scientifico; nasce dal bisogno di coerenza tra modo di pensare e di parlare di integrazione: adoperare un termine appropriato rappresenta già di per sé un momento di
integrazione, riflette un cambiamento di atteggiamenti. L’introduzione di un nuovo vocabolario ha un valore fortemente “programmatico”: i nuovi termini non inducono solo atteggiamenti, ma
evidenziano l’esigenza di nuove prassi, che si traducono in comportamenti e norme.
Un termine abusato è quello di handicap che nel lessico comune (ma purtroppo molto spesso anche fra “gli addetti ai lavori”) è usato come sinonimo di danno o menomazione fisica o psichica, di
difficoltà, malattia o sofferenza in genere e quindi anche utilizzato per indicare qualcosa di intrinseco alla persona (handicappato, portatore di handicap). L’estrema disinvoltura nell’usare questo termine (che deve forse il suo successo al fatto di non essere italiano) è probabilmente determinata dal ritenere poco utile l’annoso dibattito sui problemi legati alla definizione e classificazione delle disabilità.
Nella maggior parte dei Paesi, ancora oggi, per parlare di educazione specializzata si fa ricorso impropriamente alla terminologia dell’Handicap. Appare quindi importante, quanto utile, analizzare la provenienza etimologica del termine per rendersi conto di come anche dal punto di vista semantico sia decisamente fuori luogo.
La parola Handicap tradisce le sue origini anglosassoni e risulta composta dalla fusione delle tre parole “hand” (mano) “in” e “cap” (cappello) e veniva utilizzata durante le sue prime apparizioni
per descrivere delle prove o dei concorsi in cui i concorrenti, in base alla tipologia della gara, risultavano avere le stesse possibilità di vittoria finale. Il termine fu presto preso in prestito dal mondo ippico per descrivere la necessità di “zavorrare” i cavalli più leggeri e di conseguenza più avvantaggiati in quanto più esili, in modo tale da permettere a tutti i cavalli di partire con le stesse possibilità di vittoria. I bigliettini contenenti il riferimento numerico al cavallo venivano quindi depositati all’interno di un cappello dal quale ogni scommettitore pescava sapendo di avere, almeno
in partenza, le stesse possibilità di qualsiasi altro scommettitore. Ci si rende conto di come l’etimologia del termine handicap abbia un’accezione assolutamente positiva, venendo ad identificare un livellamento dei vantaggi ed un azzeramento delle differenze iniziali. Se usata correttamente, quindi, la parola non dovrebbe avere la valenza negativa che il suo improprio utilizzo e l’uso corrente hanno poi di fatto determinato.
Questa differente sensibilità scientifica e culturale, che considera il concetto di handicap riduttivo in quanto tende a tralasciare l’insieme dei fattori sociali ed ambientali che di fatto costituiscono la
principale fonte di ostacolo (handicap), è la stessa che ha spinto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a dotarsi di una serie di strumenti di classificazione che potessero consentire una migliore
osservazione ed analisi delle patologie organiche , psichiche e comportamentali delle popolazioni, al fine di migliorare la qualità delle diagnosi di tali patologie. La prima classificazione elaborata
risale al 1970 e prende il nome di ICD, laddove l’acronimo indica International Classification of Diseases. Come si evince dalla stessa dicitura della classificazione, l’attenzione viene puntata sulla
parola diseases, ovvero sul concetto di malattia; lo strumento classificatorio tende infatti ad individuare le cause delle patologie fornendo per ognuna di esse una descrizione delle caratteristiche cliniche e limitandosi a tradurre i dati raccolti dall’analisi in codici numerici. L’ICD rivela ben presto vari limiti di applicazione dovuti alla sua stessa natura di classificazione causale,
che focalizza cioè l’attenzione sull’aspetto eziologico della patologia al punto da spingere l’OMS ad elaborare un nuovo manuale di classificazione, più attento alle diverse componenti ambientali
del soggetto che vive una specifica patologia.
Già nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definiva, distingueva e classificava handicap, disabilità e menomazioni con la pubblicazione dell’International Classification of
Impairement Disabilities and handicaps (ICIDH)4, come appendice dell’International Classification of Diseases (ICD)5. Appare chiaro fin dalla sua prima analisi che l’attenzione di questo nuovo
strumento di classificazione si focalizzi non più sul concetto di malattia (diseases) bensì su quelli di menomazione (impairment), disabilità (disabilities) e handicap. Si ritiene cioè che non sia tanto importante partire dall’analisi della causa della patologia, ma analizzare al contrario l’influenza che il contesto ambientale esercita sullo stato di salute delle popolazioni. Si abbandona l’analisi clinico-centrica a favore di un concetto di salute inteso come benessere fisico, mentale, relazionale e sociale che riguarda l’individuo la sua globalità e l’interazione con l’ambiente.
• “Si intende per menomazione qualsiasi perdita o anomalia a carico di una struttura o di funzioni psicologiche, fisiologiche o anatomiche”. Essa comprende quindi sia le alterazioni transitorie o permanenti e le perdite di organi, sia i deficit di apparati funzionali (ivi compresa la funzione mentale) e rappresenta l’allontanamento dalla norma nella situazione biomedica individuale.
• “Si intende per disabilità qualsiasi restrizione o carenza (conseguente ad una menomazione) della capacità di svolgere un’attività nel modo o nei limiti ritenuti normali per un essere umano”. La disabilità, che può essere transitoria o permanente, si traduce in difficoltà nel realizzare i compiti normalmente attendibili da parte del soggetto considerato”.
•“Si intende per handicap una condizione di svantaggio vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona (in base all’età, al sesso, ai fattori culturali e sociali)”. L’handicap risulta allora dalla discrepanza tra l’efficienza reale o lo stato del soggetto e le aspettative di efficienza o di stato che egli stesso o il gruppo al quale appartiene hanno nei suoi confronti. L’handicap rappresenta quindi la socializzazione di una menomazione o di una disabilità e riflette le conseguenze culturali, sociali, economiche e ambientali della disabilità nell’esistenza dell’individuo considerato.
Non è quindi corretto parlare di disabilità o handicap in assenza di menomazioni a carico di una struttura del corpo o delle funzioni mentali. L’handicap, pur derivando da una menomazione, non
può con questa essere identificato, si tratta di uno svantaggio, che per esistere deve essere vissuto in una determinata situazione, anzi è proprio quella determinata situazione che lo genera. Sono, per questo motivo, improprie espressioni come “portatore di handicap” o “handicappato” sarebbe più esatto parlare di “persona in situazione di handicap” proprio per sottolineare che l’handicap non lo si porta mai con sé, lo si trova in un contesto che lo crea nel momento in cui richiede prestazioni di abilità superiori a quelle che una persona con una menomazione può offrire.
Questo tipo di classificazione imponeva però alcune limitazioni:
a) “si poteva parlare di handicap solamente riferendosi a persone con delle disabilità e menomazioni;
b) l’handicap riguardava uno svantaggio “vissuto”, sperimentato dalla persona con disabilità;
c) la condizione di svantaggio interessava l’ambito dei ruoli e delle attività normalmente attesi dall’ambiente socio culturale di appartenenza dell’individuo;
d) questa stessa situazione faceva riferimento alla discrepanza fra efficienza possibile e le aspettative di efficienza”.
Ciò significa che una persona non può essere globalmente disabile, ma anzi, al variare dei contesti e delle richieste può manifestare abilità o difficoltà. Allo stesso modo, non può essere considerata globalmente handicappata solo perché, in alcuni ambiti specifici, sarebbe disabile a causa di specifiche menomazioni. Pur essendo vero che le menomazioni continuano ad essere presenti, le disabilità compaiono invece quando si ritengono necessarie alcune prestazioni (es. un audioleso non risulta disabile se deve correre, lo risulta invece se deve ascoltare); a loro volta gli handicap sono presenti solamente quando ci si attendono o si pretendono prestazioni standard a prescindere dalle effettive possibilità dell’individuo in questione. Anche in questo caso allora non avrebbe senso parlare di handicap o persone handicappate, poiché l’handicap comparirebbe soltanto in contesti di “competizione”, di integrazione scolastica, sociale e comunitaria. Il termine handicap viene così utilizzato in riferimento alle effettive difficoltà che un individuo incontra. “E’ così possibile che una disabilità produca handicap più gravi in una società, che non in un’altra. Ad esempio l’handicap collegato con menomazioni e disabilità a livello motorio tende ad essere maggiore in una economia primitiva rurale (dove è richiesto molto lavoro manuale) che non nella nostra società. La situazione è inversa in caso di disabilità che coinvolgano le funzioni intellettuali, dato che nella società attuale esse sono più valorizzate che in passato”.
Appare evidente che le espressioni di menomazione, disabilità ed handicap, pur essendo tra di loro in relazione, indicano condizioni diverse e non possono essere usate in modo genericamente
interscambiabile. Il primo ICIDH per chiarire i rapporti tra malattia e sue conseguenze, proponeva uno schema di flusso lineare unidirezionale del tipo:
Questo schema portava però ad una errata interpretazione dei rapporti intercorrenti tra ciò che veniva classificato nei tre ambiti come conseguenza della malattia, in quanto le frecce,
evidenziandone un nesso causale, sembravano voler presentare una situazione che necessariamente evolveva nel tempo in una determinata maniera, benché nel testo fosse specificato che le frecce
andavano interpretate come “può portare a”.
Puntare l’attenzione sulla “malattia” fa però correre diversi rischi, come quello di far coincidere la malattia con la persona, per cui si tende ad identificare quella persona come globalmente malata.
In questi ultimi anni attorno al tema della disabilità si sono registrate alcune importanti novità; non sempre queste novità si sono trasformate in nuove prassi, però il fatto che esistano possono
stimolare tutta una serie di cambiamenti a livello di organizzazione e di realizzazione di pratiche abilitative e riabilitative. Le novità più importanti riguardano innanzitutto la presenza, a livello
internazionale, di nuove indicazioni a proposito di come procedere in sede di classificazione e di valutazione. Viene suggerito di non fare più riferimento alla classificazione delle disabilità, ma tutti
gli operatori vengono incoraggiati ad elencare e a considerare i repertori di attività che le persone, anche con menomazione, intraprendono nella loro vita quotidiana. Il profilo che un tempo veniva
redatto a proposito delle condizioni delle persone con menomazione e che conduceva ad un profilo di inadeguatezze, viene oggi sostituito con l’elenco di quelle attività che le persone riescono a svolgere in modo autonomo e con la segnalazione di quelle che l’Organizzazione Mondiale della Sanità chiama “repertorio di attività”.
Nel 1997 l’OMS ha riformulato l’ICIDH: l’International Classification of Impairments, Activities and Partecipation (ICIDH-2)11 che, pur mantenendo l’acronimo, ridefinisce due degli ambiti della
precedente classificazione, quello inerente le disabilità, qui classificate come attività personali e quello relativo agli handicap, ridefiniti come diversa partecipazione sociale.
Il nuovo modello di lettura della condizione delle persone con disabilità introduce nuovi concetti:
a) il primo è la relazione tra funzioni ed attività: la valutazione di persone con disabilità non va effettuata su parametri astratti di valutazione, ma sulla possibilità di svolgere determinate attività attraverso funzioni psicofisiche. Questo significa valutare le persone sulla base di ciò che sa fare;
b) il secondo è il livello di partecipazione che le persone con disabilità vivono all’interno della società;
c) il terzo concetto individuato nell’ICIDH-2 è legato ai fattori contestuali che favoriscono o ostacolano le persone con disabilità. In conseguenza di una visione medica del problema si sono sviluppate pratiche che vedono e trattano le persone disabili in modo differente, che ne valutano in maniera distorta le capacità ed abilità; queste visioni hanno prodotto per alcuni secoli una pratica di riabilitazione separata (prima guarigione e poi inserimento) e di conseguenza l’invisibilità delle persone disabili.
L’ICIDH-2 cerca di cogliere e classificare ciò che può verificarsi in associazione ad una condizione di salute, le “compromissioni” della persona o il suo “funzionamento”. A differenza della precedente versione, non è una classificazione che riguarda soltanto le condizioni di persone con disabilità fisiche o mentali, ma può essere applicata a qualsiasi persona in una condizione di salute
tale da richiedere una valutazione dello stato di funzionamento a livello corporeo, personale o sociale. Nella nuova classificazione le abilità di un individuo non sono considerate patrimonio immutabile che se deficitario lo è in ogni situazione.
Alla luce di ciò, taluni preferiscono parlare di diversa abilità invece che di disabilità, sostenendo che questo serva non soltanto per non sottolineare gli aspetti deficitari di una persona ma per
evidenziarne la possibilità di diversi gradi di abilità nelle diverse circostanze. Questa scelta, che non trova un corrispettivo in nessuno dei manuali diagnostico-statistici in uso, parrebbe legata quindi ad una valutazione in positivo delle abilità e delle prestazioni di persone con menomazioni fisiche o intellettive che, in alcune situazioni e in determinati contesti, possono presentare prestazioni anche migliori di quelle standard.
Il nuovo ICIDH-2 cerca perciò di superare i limiti della prima edizione, si aggiorna nella classificazione e nei criteri di valutazione, offre maggiori chiarimenti circa i rapporti tra i diversi livelli di classificazione e tiene conto dei ritorni, ovvero delle ricadute tra un livello e l’altro, tra una dimensione e l’altra e si completa con la dimensione dei fattori contestuali in cui e attraverso cui avviene il processo di compromissione, comprendendo tutti quei fattori che interagiscono con la persona e ne determinano il livello e il grado di partecipazione all’ambiente. Questi fattori riguardano principalmente due categorie: fattori ambientali (intrinseci o estrinseci all’individuo) e fattori personali (sesso, età, altre condizioni di salute, forma fisica, stile di vita, educazione ricevuta, background sociale, ecc.).
Viene, con questa seconda versione, messa in evidenza la necessità di considerare la diversità come collocata all’interno di un complesso sistema che comprende diverse dimensioni strettamente
interconnesse ed interdipendenti, per questo motivo “sono necessari modelli multipli per studiare i fenomeni di disabilitazione come processo interattivo e di evoluzione….l’ICIDH intende proporre un approccio multidimensionale e multiprospettico a questi fenomeni, fornendo gli elementi basilari a chi desideri creare modelli…L’ICIDH-2 è quindi un linguaggio: il testo che può essere creato con esso dipende da chi lo utilizza, dalla sua creatività e dal suo orientamento scientifico”.
La novità più importante nella seconda edizione dell’ICIDH è che non si sofferma a considerare unicamente i diversi aspetti deficitari di quanto e come una persona si discosta dalla normalità
(malattie e menomazioni-disabilità-handicap) ma ciascuna dimensione viene valutata in termini sia positivi che negativi. In una programmazione educativa, quando è necessario operare delle scelte su ciò che è necessario ed opportuno per una data persona, è di pari importanza poter disporre di dati che indicano ciò che il soggetto non è in grado di fare e ciò che il soggetto è in grado di poter fare.
Processo di revisione: dall’ICIDH all’ICF.
L’ICF, International Classification of Functioning, Disabilities and Health, nasce in seguito ad alcune revisioni operate dall’OMS sull’ICIDH. Occorre precisare che l’acronimo ICIDH-2 è solo
provvisorio e viene dato alla prima versione rivisitata dell’ICIDH nel 1993. Il primo aspetto innovativo della classificazione emerge nella stessa nomenclatura. A differenza delle precedenti classificazioni (ICD e ICIDH) nelle quali veniva dato ampio spazio alla descrizione delle malattie dell’individuo ricorrendo a termini quali malattia, menomazione ed handicap (usati prevalentemente in accezione negativa) nell’ultima classificazione l’OMS fa riferimento all’analisi della salute dell’individuo in chiave assolutamente positiva. Attraverso la classificazione si vuole fornire la più completa ed approfondita analisi dello stato di salute degli individui ponendo la correlazione fra salute ed ambiente, arrivando alla definizione di disabilità intesa come una condizione di salute in un ambiente sfavorevole. Questa nuova classificazione mette tutte le malattie e le patologie sullo stesso piano, senza distinguerle in rapporto a ciò che le ha causate. A parità di patologia, anzi, analizza il contesto sociale, familiare, abitativo o lavorativo del soggetto. Esamina cioè tutti gli elementi che possono influire sulla qualità della vita della persona.
La revisione viene fatta per rispondere ad alcune richieste: essere funzionale alle esigenze avvertite nei diversi Paesi; essere semplice e facilmente fruibile da parte dei professionisti, che lo
percepiscono come una descrizione significativa delle conseguenze delle condizioni di salute; essere utile per identificare i bisogni di assistenza sanitaria e per predisporre quindi dei programmi
di intervento; essere sensibile alle differenze culturali, in modo da poter essere applicato in culture e sistemi sanitari differenti; essere complementare a tutte le altre classificazioni OMS.
Prima della sua presentazione alla 54ª World Health Assembly nel maggio 2001 (dove viene approvato con il nome di ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e
della Salute), l’ICIDH-2 subisce almeno 3 momenti di revisione, seguite da altrettante prove sul campo, atte a verificarne l’esaustività e l’efficacia:
1. 1996, Ginevra: meeting di revisione. Viene proposta la Bozza Alfa alla quale segue la prima verifica pilota;
2. 1997: viene prodotta una versione Beta-1 che integrava i suggerimenti raccolti nel corsodegli ultimi anni. In seguito ad un meeting tenutosi nell’aprile dello stesso anno, l’ICIDH-2 bozza Beta-1 viene pubblicato qualche mese più tardi. Si avviano le prove di verifica sul campo;
3. 1999: sulla base dei dati raccolti in seguito alle prove sul campo della Beta-1, tra gennaio ed aprile viene realizzata la bozza Beta-2, presentata a Londra in occasione del meeting annuale e, arricchita delle decisioni prese nel corso dello stesso, pubblicata nel luglio dello stesso anno per la prova sul campo;
4. 2000: dopo le prove sul campo della Beta-2, viene redatta ad ottobre la versione prefinale dell’ICIDH-2. Viene presentata in occasione del meeting annuale nel novembre e, dopo l’incorporazione delle decisione prese in questo meeting, la versione prefinale (dicembre 2000) viene sottoposta al Comitato Esecutivo dell’OMS (gennaio 2001);
5. 2001, maggio: la bozza finale dell’ICIDH-2 viene presentata alla 54 ª World Health Assembly dove, con il titolo di ICF, viene approvata. 191 Paesi riconoscono l’ICF come la nuova norma per salute e disabilità. La salute è multidimensionale, così come la disabilità. L’ICF non è una classificazione che riguarda un “gruppo” ma riguarda tutte le persone poiché tutti possono avere una condizione di salute che in un contesto ambientale sfavorevole causa disabilità. È un capovolgimento di logica: mentre gli indicatori tradizionali si basano sui tassi di mortalità, l’ICF pone come centrale la qualità della vita delle persone affette o meno da una patologia, permette quindi di evidenziare come convivono con la loro condizione e come sia possibile migliorarla affinché possano contare su un’esistenza produttiva e serena. Lo scopo generale della classificazione ICF è quello di fornire un linguaggio standard e unificato che possa servire da modello di riferimento per la descrizione della salute e degli stati ad essa correlati. I domini contenuti nell’ICF (cioè l’insieme di funzioni fisiologiche, di strutture anatomiche, azioni, compiti, o aree di vita correlate) sono visti come domini della salute e domini ad essa correlati. Questi domini sono descritti in due elenchi principali, suddivisi ciascuno da due componenti:
Funzionamento e Disabilità
a) Funzioni e strutture corporee;
b) Attività e Partecipazione.
Fattori Contestuali
a) Fattori ambientali;
b) Fattori personali.
Le funzioni corporee sono le funzioni fisiologiche dei sistemi corporei, incluse le funzioni psicologiche. Le strutture corporee sono parti anatomiche del corpo come organi, arti e loro componenti. Attività è l’esecuzione di un compito o di un’azione da parte di un individuo. Partecipazione è il coinvolgimento di un individuo in una situazione di vita.
I fattori ambientali sono caratteristiche del mondo fisico, sociale e degli atteggiamenti, che possono avere impatto sulle prestazioni di un individuo in un determinato contesto. In quanto classificazione l’ICF raggruppa in maniera sistematica diversi domini di una persona in una data condizione di salute (cioè quello che una persona con una malattia o un disturbo può o non può fare).
Funzioni corporee
1. Funzioni mentali
2. Funzioni sensoriali e dolore
3. Funzioni della voce e dell’eloquio
4. Funzioni del sistema cardiovascolare, ematologico, immunologico e respiratorio
5. Funzioni del sistema digestivo, metabolico e endocrino
6. Funzioni genitourinarie e riproduttive Funzioni neuromuscoloscheletriche e collegate al movimento
7. Funzioni cute e strutture associate
Strutture corporee
1. Strutture del sistema nervoso
2. Occhio, orecchio e strutture collegate
3. Strutture collegate alla voce e all’eloquio
4. Strutture dei sistemi cardiovascolare, immunologico e respiratorio
5. Strutture collegate al sistema digestivo, metabolico e endocrino
6. Strutture collegate al sistema genitourinario e riproduttivo
7. Strutture collegate al movimento
8. Cute e strutture collegate
Attività e partecipazione
1. Apprendimento e applicazione della conoscenza
2. Compiti e richieste di carattere generale
3. Comunicazione
4. Mobilità
5. Cura della propria persona
6. Vita domestica
7. Interazioni e relazioni interpersonali
8. Principali aree della vita
9. Vita di comunità, sociale e civica
Fattori ambientali
1. Prodotti e tecnologia
2. Ambiente naturale e cambiamenti apportati dall’uomo all’ambiente
3. Supporto e relazioni
4. Atteggiamenti
5. Servizi, sistemi e politiche
Nelle classificazioni internazionali dell’OMS le condizioni di salute vere e proprie (malattie, disturbi, lesioni, ecc.) vengono classificate principalmente nell’ICD-10 (International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems) che fornisce un modello di riferimento eziologico. Nell’ICF vengono invece classificati il funzionamento e le disabilità associati alle condizioni di salute. ICD-10 e ICF sono quindi complementari: il primo fornisce una “diagnosi”
delle malattie, dei disturbi o di altri stati di salute e questa informazione si arricchisce delle informazioni aggiuntive offerte dall’ICF relative al funzionamento. Due persone con la stessa malattia, infatti, possono avere diversi livelli di funzionamento e due persone con lo stesso livello di funzionamento non hanno necessariamente la stessa condizione di salute. “Le informazioni sulla mortalità (ICD-10) e sulle condizioni di salute (ICF) possono essere combinate in una misurazione riassuntiva per controllare la salute delle popolazioni”.
La cosa che emerge con chiarezza nell’evoluzione delle classificazioni OMS (ICIDH, ICDH-2, ICF), è l’abbandono man mano definitivo del termine handicap e dei suoi derivati, che hanno connotazioni fortemente negative (handicappato) in favore di termini più aggiornati, più descrittivi dei contesti di vita e che focalizzano l’attenzione sulle risorse e sulle prestazioni abili ovvero sulle abilità emergenti di un soggetto, invece che sui suoi insuccessi. Solo una valutazione in positivo
rappresenta il punto di partenza di qualsiasi percorso educativo pensato per garantire il diritto alla non-omologazione e quindi all’originalità, alla diversità, alla irripetibile unicità di una persona.
L’attenzione alla persona consiglia quindi anche l’abbandono di una terminologia che in passato focalizzava l’attenzione sulla patologia o sugli elementi di diversità: il Down, il diabetico, l’autistico, il menomato, il disabile (ma è inadeguato anche il diversamente abile) ecc., perché, anche in questo caso si fa coincidere la persona con la sua disabilità che va invece considerata come attributo di quella persona in un determinato contesto di vita (il bambino con sindrome autistica, la persona con diversa abilità, ecc.).
Non è quindi vero che “la questione di come debbano essere definiti” gli individui che vivono qualche grado di limitazione o restrizione funzionale resta sostanzialmente irrisolta nell’ ICF: le indicazioni che ne emergono sono chiare, quelle di un “non-etichettamento” della persona. Nell’ICF il termine “disabilità” viene ad assumere il significato di “fenomeno multidimensionale” risultante dall’interazione tra persona e ambiente fisico e sociale; ciò si propone è una classificazione delle caratteristiche della salute delle persone all’interno delle loro situazioni di vita individuali ed ambientali. Questo tipo di classificazione si dimostra molto utile in ambito educativo, dove, di concerto ad altri sistemi di classificazione (ICD-10; DSM IV) contribuisce di fatto all’individuazioni e pianificazione di interventi personalizzati per gli studenti con bisogni educativi speciali.